Il pomeriggio del 31 dicembre, in un momento in cui mi sono ritrovata stranamente da sola, con accanto solo g. che dormiva, ho acceso la TV e fatto partire su Netflix la puntata di Song Exploder dedicata a “When You Were Young” dei Killers. Non avrei potuto fare cosa più sbagliata.
Non nutro un amore profondo e viscerale per i Killers, ma il loro primo disco, Hot Fuss (e ho dovuto googlarlo, perché non mi ricordavo neanche il titolo) è uscito in un periodo della mia vita particolarmente felice: l’università, un nuovo amore, i ragazzi con le polo sotto la giacca, io che cercavo di sembrare appena uscita da un cabaret della Belle Epoque. “Mr. Brightside” è rimasta negli anni la canzone perfetta – per cantare a squarciagola, per ballare like nobody’s watching (avete presente Cameron Diaz in The Holidays, il miglior film di Natale di tutti i tempi senza se e senza ma?), per baciare la persona sbagliata (It was only a kiss), per essere felici.
Con Sam’s Town, il secondo album, il mio entusiasmo si era già molto affievolito – rileggendo adesso la tracklist, mi rendo conto di non essere in grado di accennare nessuna delle canzoni che non fossero uscite come singoli – nonostante avessero iniziato a collaborare con Anton Corbijn per i visual (sui cui videoclip per i Depeche Mode avevo appena scritto la mia tesi di laurea). Non saprei dire il motivo di questo disinteresse, non c’è una causa scatenante. Semplicemente, certe cose si perdono nella vita di tutti i giorni, e per un bel po’ di anni ho smesso di considerare Brandon Flower e soci rilevanti per la mia esistenza.
Ma “When You Were Young” aveva qualcosa di diverso. La storia che racconta, quella terzina He doesn't look a thing like Jesus/ But he talks like a gentlemen/ Like you imagined when you were young che ai tempi non sapevo spiegare ma che avevo capito che in qualche modo riverberasse con me, è rimasta lì, per tutto questo tempo, silenziosa, senza mai abbandonare i meandri della mia mente profonda. In fondo, sapevo che quel Waiting on some beautiful boy to/ To save you from your old ways era quello che avevo sempre sperato succedesse.
Finché un giorno qualunque, subito dopo Natale, mentre spingevo il passeggino nel reparto casalinghi dell’unico negozio in cui ho messo piede negli ultimi mesi, tutta la mia vita precedente si è riaperta sulle note di una chitarra che aspettava una voce che pronunciasse Coming out of my cage/ And I've been doing just fine – rincarando la dose con “Cosa mi manchi a fare” di Calcutta messa in coda.
Finché non ho premuto play un pomeriggio, da sola, alla fine dell’anno più assurdo e sconvolgente di tutta la mia vita, che è passato apparentemente senza lasciare segni tangibili – non come le rotture che hanno impresso a fuoco il loro trauma sulla mia pelle, ma come il Colorado River che con la costanza di milioni di anni è riuscito a scavare il Grand Canyon.
Finché davanti ai miei occhi non hanno cominciato a scorrere immagini del deserto del Nevada, delle luci della Strip, insieme a vecchi filmati di una Vegas di quarant’anni fa, in cui la Fremont non era ancora diventata una “street experience” ma il fulcro di tutto il circo dell’umanità che splendeva sotto le sue lampadine. Una città in cui è inimmaginabile che qualcuno possa vivere, raccontata da quattro persone che lì sono nati e cresciuti, e che hanno scritto le note su cui la tua mente sta facendo fatica a rimanere composta. Anche il luogo in cui mi sono sentita peggio in tutti gli Stati Uniti stava buttando sale sulla ferita aperta di tutte le mancanze che si sono fatte sentire in questi 12 mesi.
Finché non ho compreso che nella mia vita è veramente arrivata una persona che mi ha completamente fatto cambiare prospettiva, ha rotto tutte le catene delle abitudini e le sensazioni che mi hanno tenuta legata per così tanto tempo, e l’ha fatto senza clamore, senza che me ne accorgessi se non guardando indietro, alla me di qualche anno fa.
He doesn't look a thing like Jesus/ But more than you'll ever know – è tutto lì, in quegli ultimi due versi, in una consapevolezza che si può fare propria solo se vista dall’esterno, offerta così, come se fosse un commento da nulla, e che si regge anche senza la sovrastruttura religiosa che si porta con sé.
Ain't there one damn song that can make me break down and cry?
Caro David Bowie del 1975, la risposta è sì, e per ironia della sorte la cantano dei giovani americani. L’ho scoperto in un momento in cui break down and cry era tutto ciò di cui avevo bisogno.
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3G - Una vita lenta e obsoleta
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Quell'album siginfica molto anche per me. Bello leggerti.