Lo spazio-tempo intorno alla Terra non è lineare ma leggermente curvato; c’entra la gravità, l’ha scoperto Albert Einstein, e ne ha tratto la teoria della relatività generale. Al liceo, per spiegarcela, ci avevano fatto vedere un video con degli Albert cartone animato che tirano dei palloni nello spazio: mi ricordo ancora gli appunti con gli schemi di tiro, chi sembrava fermo e chi in movimento (a seconda dei punti di vista), dove andava la palla, come faceva a prenderla il ricevitore, presi su fogli a quadretti rosa, in un momento di inusuale ispirazione.
La percezione lineare dello spazio-tempo è forse la cosa che più mi sta facendo arrancare in questi ultimi mesi. Faccio molta fatica a rendermi conto dello scorrere del tempo: continuo a credere e dire che g. ha sei mesi, come quando abbiamo lasciato Milano, ma in realtà sta per compierne nove; e non sono riuscita a fissare il pensiero che Natale sia già passato e siamo ormai a metà gennaio. Tutto è rimasto cristallizzato a quella fine di ottobre in cui, mentre salutavo la mia casa sapendo inconsciamente che forse non l’avrei più rivista, G. mi diceva “guarda che non che ne stiamo andando per sempre”. Ma in questo momento, il tempo che ci separa dall’entrare in possesso della casa nuova è minore di quello trascorso da quando abbiamo chiuso quella porta: mesi che nella mia testa non sono mai esistiti, non ho vissuto, sono svaniti.
Contemporaneamente, però, sono eccessivamente consapevole di questo fluire inesorabile di giorni e settimane, pietrificata dal rendermi conto di come sia impossibile fermare questo avanzare. Penso a tutte ciò che abbiamo lasciato dietro quella porta chiusa distante qui, alle cose che, ormai, quando le rincontreremo, si saranno trovate ad aspettare un bambino troppo cresciuto per loro. Penso a come g. potrebbe non riconoscere più quegli oggetti e quelle stanze che sono dove corre il mio cuore in cerca di conforto. Penso a tutti coloro che si stanno perdendo attimi preziosi di una persona che cambia di giorno in giorno a una velocità inimmaginabile per un adulto e che per lui sono solo facce dentro uno schermo, quando dovrebbero essere abbracci e avventure insieme.
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L’altro giorno, mentre sentivo crollare il peso di queste e molte altre inquietudini su di me, mi è tornata in mente una canzone di venticinque anni fa.
È una canzone che ogni tanto riaffiora nella mia memoria – per la voce di Kelly Jones che graffia sulla musicalità della paratassi, per la concatenazione di domande che apre mondi all’immaginazione, per la poesia di you talk dirty to a priest? It makes them human at least e per quel wrote a hardback book? dalle “O” gallesi che ti fa venire voglia di scriverlo davvero solo per sentirselo chiedere in quel modo.
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Mentre ascoltavo Traffic seduta su questo divano rosso, ho capito che la storia dietro il suo testo è la perfetta descrizione di come mi sembra abbiamo vissuto questi mesi: chiusi in macchina, fermi nel traffico, bloccati, fisicamente impossibilitati a muoverci mentre intorno a noi tutto procede, costretti a guardare gli altri dal finestrino e a giocare a inventarci le loro storie, senza poter comunicare direttamente.
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Ieri notte, mentre pensavo a questi giorni strani, mi è venuto in mente di aprire un canale su Telegram. L'ho chiamato come la newsletter, ma non sono sicura che le due cose saranno collegate. Ho pensato che magari, così, ci sentiremo meno isolati. Vi potete iscrivere a questo link: https://t.me/guia3G
* Sembra un commento ironico, ma è davvero l’immagine a corredo di un articolo con quel titolo apparso nel 2020 su Le Scienze, purtroppo dietro paywall.
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3G - Una vita lenta e obsoleta
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