April is the cruelest month, breeding
lilacs out of the dead land, mixing
memory and desire, stirring
dull roots with spring rain.
Aprile è il mese più crudele, quello delle chiusure e delle rinascite, quello delle ferite da far rimarginare con l’oro, quello che lascia le crepe da cui entra la luce.
Nei momenti più difficili guardo le foto.
Nonostante il mio amore viscerale per le parole, sono le immagini quelle che riescono a darmi più conforto, ad aiutarmi a riprendermi, a dare alla mia mente nuovi stimoli.
Allora, apro Google photos e comincio a sfogliare tutti gli album. Cerco tutta l’America che ho visto, penso a quella che mi è sfuggita da qualche finestrino, mi immagino quale sarà la prossima su cui camminerò.
Mi perdo nelle migliaia di scatti casuali di tutti i momenti della mia vita in cui non sono stata in viaggio. Me li ricordo tutti, uno per uno. Le persone, le cose, i luoghi, le occasioni. Guardare le foto è come se mi ricordasse di essere viva e di aver vissuto.
Ultimamente, tendo a dimenticarmene.
Nel 2003, quando mi è sembrato che il mondo mi crollasse addosso, ho preso una vecchia macchina fotografica e ho iniziato a scattare.
Non so disegnare, ho una mano pessima, che non risponde agli stimoli del mio cervello, e l’incapacità di esprimermi in modo visivo è stata una delle più più grandi frustrazioni, quando ero ragazza. Stando dietro al mirino, però, questa frustrazione svaniva. Finalmente, riuscivo a trasferire in immagine ciò che balenava nei miei pensieri.
Giravo con la macchina fotografica costantemente nella borsa, scattavo ovunque vedessi “qualcosa”: dai finestini dell’autobus, mentre aspettavo qualcuno in macchina, passeggiando per la periferia in cui si trovava la sede del mio dipartimento all’università. Prima una vecchia Olympus digitale compatta, poi la reflex anni ‘80 di mio padre, poi – finalmente – la mia prima reflex digitale, per la laurea. Ho persino esposto alcune stampe in qualche occasione, toccando l’apice con una mostra in un’associazione culturale ormai scomparsa, sul Naviglio Grande. I social non esistevano ancora.
Poi ho conosciuto un ragazzo, e la macchina fotografica ha cominciato pian piano a rimanere sempre più spesso dentro la mia borsa, fino a trovare un posto fisso sulla mia libreria. La sua obsolescenza è sfumata nell’avvento delle fotocamere dei cellulari, e con esse il mio occhio si è riaperto. Nel frattempo era arrivato Instagram e le persone intorno a me avevano iniziato a scattare bulimicamente centinaia di foto ogni giorno, a documentare per immagini qualsiasi cosa capitasse loro a tiro. Io, improvvisamente, era quella che non fotografava mai niente. Il mio Instagram sempre quello più spoglio.
Invece fotografavo, eccome. In una parabola velocissima, le fotocamere dei miei iPhone, sempre più potenti e sofisticate, sono presto diventate non abbastanza. Mi mancava il mirino. A me, che della postproduzione non interessa nulla e non ho nessuna competenza, importava solo avere l’occhio schiacciato contro una cornice che delimitasse il mio sguardo dentro un rettangolo in cui la mente disponesse a suo piacimento gli elementi. Strizzare l’occhio, controllare l’esposizione, premere il bottone. Il rituale sacro. Per il penultimo Natale che abbiamo trascorso insieme prima che le nostre vite ritornassero parallele, quel ragazzo mi ha regalato una nuova macchina fotografica. Dopo qualche anno, durante il primo viaggio in America che ho fatto completamente da sola, ha smesso di funzionare – un guasto riparabilissimo, messo a posto dopo non molto tempo. Ma tra noi qualcosa è cambiato.
Tre anni fa ho raccolto le foto più belle che ho scattato in giro, soprattutto negli USA, e le ho fatte stampare. Ho chiesto su Facebook e Twitter a chiunque volesse riceverne una di mandarmi il suo indirizzo. Ho raccolto tutti quelli che mi sono arrivati su un quaderno che non avevo mai usato, perché non mi aveva mai ispirato fiducia. E infatti l’ho perso. Quella scatola di foto è rimasta lì, nello sportello della libreria, vicina alla macchina fotografica.
In questi giorni vorrei averla qui con me, guardare il suo contenuto, raccontare a tutti cosa rappresentano quelle stampe. Le penso da sole, nella mia casa vuota; penso alla mia macchina fotografica, al cielo fuori, e a g.
L’ultima volta che l’ho usata è stata per scattare degli autoritratti e delle foto delle mie librerie per un progetto bellissimo su Instagram. Quattro ore dopo, g. ha deciso di venire al mondo. Non l’ho mai più ripresa in mano.
Tra poco quella libreria sarà svuotata e smontata, e mi piacerebbe che quelle fotografie prendessero davvero il volo, stavolta.
Ne spedirò una a chiunque mi manderà il suo indirizzo postale rispondendo a questa newsletter. Questa volta davvero. Ognuna di essere ha un luogo da raccontare, e non vede l’ora di farlo.
Questa è
3G - Una vita lenta e obsoleta
, la newsletter di Guia Cortassa. Se ti piace, con i bottoni qui sotto puoi commentare e condividere.
Se vuoi sostenere il mio lavoro, puoi offrirmi un caffè su Ko-fi
. Se invece vuoi dirmi qualcosa, rispondi all’email. Alla prossima!