Quella in cui abitiamo, si dice, era la casa del dottore del paese. È nel centro del paese: un villaggio operaio costruito alla metà del 1800 intorno al mastodontico cotonificio – come Crespi d’Adda, ma ancora vivo e meno famoso.
La prima stanza, affacciata sull’ingresso, è lo studio – la sala d’aspetto, lo studio del medico, il resto della casa che aspetta dietro due ante di vetro sabbiato che la separano da questo primo blocco, dedicato alla prestigiosa professione.
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Le pareti dello studio sono blu notte, tutte, anche il soffitto. La prima volta che ci sono entrata, ho desiderato che quella stanza fosse mia: la superficie ampia, le modanature sui muri e sul plafone, il parquet scuro, le librerie bianche, le finestre enormi erano proprio lo spazio che avrei voluto abitare con i miei pensieri.
Poi ho pensato che, così vicina al soggiorno, sarebbe stato difficile concentrarmi. Che gli scaffali chiusi dalle vetrine non mi piacevano. Che. Che. Che. Come ogni cosa che passa nella mia esistenza, quel desiderio è sfumato. L’ho lasciato andare.
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La prima stanza, affacciata sull’ingresso, della casa in cui abitiamo, è lo studio di G. Le numerose librerie che ricoprono tutte le pareti sono già piene di tutti i suoi libri – mi ritrovo a guardarli con ammirazione, per quanti sono. Appoggiata al muro più stretto, l’unico libero, c’è una vecchia poltrona di pelle marrone, avvolgente. Il parquet scuro, caldo, è coperto da un grosso tappeto marocchino, che riprende i colori degli scaffali.
Quando qualcuno entra a casa, l’idea che la prima cosa che veda sia proprio quella camera mi rende orgogliosa.
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Nella casa in cui abitiamo, io lavoro seduta al tavolo da pranzo. Il mio studio è al piano superiore, l’ultima stanza in fondo al corridoio, a sinistra. Ha una libreria bianca, di metallo, a parete: l’ho scelta con fare maniacale e l’ho amata alla follia, finché ho capito che non riuscirò mai a riempirla e a renderla bella. Fuori, nel corridoio, c’è lo scaffale che è venuto con me da Milano – un pezzo, tutto non ci stava. Sopra, ci sono i miei libri di narrativa. Stanno lì, senza che nessuno vi posi lo sguardo per giorni e giorni. Per non parlare di quelli dentro la stanza.
La scrivania appoggiata al muro vicino alla finestra non c’è più: è stata spostata di sotto, nello studio blu, perché finalmente qualcuno potesse usarla. Al suo posto, vicino al muro bianco appena ridipinto, accanto alla stampante su un mobiletto, è rimasta una passerella da imbianchino con sopra ancora un mucchio di scatoloni da svuotare.
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Non ho mai trovato nulla che raccontasse così bene noi e le nostre vite, come queste due stanze.