[3GR 01] Kitchen of the Great Midwest, di J. Ryan Stradal
Libri di cucina e convinzioni che cambiano
[Nello spiegone di presentazione ho dimenticato una cosa: se conosco la lingua, leggo sempre tutto nella sua versione originale, e molte volte non so neanche se esista una traduzione italiana del libro che ho in mano: vado a cercarla solo dopo che l’ho finito*. Per questo motivo, i titoli nella preview saranno sempre quelli originali, ma indicherò sempre il loro corrispettivo italiano nel testo, quando c’è.
* Sembra snobismo, ma è solo pigrizia.]
Per il primo Natale che abbiamo passato insieme, G. mi ha regalato dei libri di cucina. Nel pacchetto, insieme al maestoso cookbook americano della Phaidon – l’equivalente culinario di State by State, la mia bibbia personale, se solo quest’ultimo si trasformasse in un coffee table book – c’era un altro volumetto, di formato A5 e rilegato con una spirale di plastica bianca. Era un ricettario messo insieme dalle mogli di una stazione di polizia della Florida, venduto come mezzo di autofinanziamento per i progetti sociali. Una raccolta fatta di pranzi e cene di famiglia, di ricette passate in linea matriarcale di generazione in generazione, messe ora a disposizione di chiunque. Sfogliarlo, è come affacciarsi alle finestre del tinello di quelle case, entrare nel momento più intimo della vita di un nucleo famigliare: quello trascorso intorno al tavolo in una sala da pranzo, tra portate che esondano amore e maionese.
Questi ricettari – ecclesiastici o secolari – soggiornano sulle mensole della cucina di ogni casa “di famiglia” americana che si rispetti. È da quello della chiesa locale, per esempio, che l’anno scorso, in Wisconsin, abbiamo preso la ricetta del puré di patate al formaggio per il Ringraziamento, da preparare nella teglia di pyrex, perché possa passare in forno a far sciogliere i fiocchetti di burro messi sulla sua superficie, e in cui, con mio sommo stupore, la maionese era sostituita da chili di Philadelphia.
Non stupisce, quindi, trovare nei ringraziamenti finali di Kitchens of the Great Midwest, romanzo d’esordio di J. Ryan Stradal (Pamela Dorman Book, 2015; in Italia Peperoncino fresco a colazione, Mondadori, trad. K. Bagnoli, 2016) questo paragrafo:
Very special thanks to my great-grandmother Lois Bly Johnson’s church, First Lutheran Church of Hunter, North Dakota, and all of the contributors to the 1984 edition of the First Lutheran Church Women cookbook, on which five of the recipes in this novel are based.
Si può scommettere che Pat Prager ne abbia ogni edizione annuale nella sua cucina e che, anzi, sia tra quelle contributors che cita l’autore. Eva Thorvalds ne avrà sfogliato qualcuno, pensando a quali materie prime usare per far diventare quei disastri nutrizionali di comfort food delle portate perfettamente sane e bilanciate. Octavia Kincade e Cynthia “Cindy” Hargreaves, invece non si abbasserebbero mai a preparare – figuriamoci consumare – pietanze così grevi e ordinari.
L’asse su cui si muovono i personaggi del libro e le loro vite, la chiave di volta delle relazioni umane che intrecciano o sciolgono, l’innesco dei ricordi e dei traumi che hanno segnato le loro esistenze è proprio il cibo. Che sia la scelta di un ristorante, la ricerca di ricette e ingredienti di un piatto, o il grembo accogliente del comfort food, gli alimenti e la loro consumazione diventano l’incarnazione simbolica dei tratti distintivi delle persone che popolano le pagine, arrivando prima ancora di un possibile tratteggio fisico e psicologico, facendoci scoprire amori e idiosincrasie personali e commestibili, a volte impossibili da scindere uno dall’altro.
Riga dopo riga, ci si ritrova seduti a tavola con persone (quasi) sconosciute, ma che sembra di conoscere da sempre, nonostante esistano solo sulla carta, come solo nel Midwest può accadere. Origini, ascendenze, tradizioni e classi sociali si mischiano e si contaminano, con esiti illuminanti o disastrosi.
Alla fine della lettura, due sensazioni mi hanno lasciato molto stupita: la prima è che, nonostante si svolga tra Duluth, Minneapolis e il confine tra Minnesota e Wisconsin – i miei posti del cuore per definizione – niente nel libro mi ha fatto venire nostalgia del Midwest. C’è talmente tanto di altro che prende tra quelle pagine, che l’ambientazione geografica (così come i riferimenti musicali, tali che ogni tanto mi chiedevo se l’autore mi seguisse su Spotify o simili) non è riuscita a fare nessuna leva sulla mia reazione emotiva. La seconda è che, a dispetto di ogni previsione, ci si ritrova ad amare Pat Prager, l’ultima persona che ognuno vorrebbe nella propria vita, più di quando ci si possa aspettare – e che soddisfazione quando qualcosa riesce a mettere a gambe all’aria le proprie convinzioni: è proprio questa la mia idea di letteratura.
Adoro.