Una delle cose che più mi manca sono le strade.
Non le vie cittadine, ma le superstrade, quelle a scorrimento veloce e di grande comunicazione, larghe, spaziose, che si snodano per chilometri e chilometri nel nulla – non mi interessa molto il concetto di viaggio on the road, con tutta la mitologia che si porta con sé: quello che amo sono le carreggiate, l’asfalto, le stazioni di servizio e il paesaggio che cambia fuori dal finestrino, che sia l’Aurelia o la Highway 1.
Scrivo queste parole seduta sul sedile del guidatore, mentre aspetto che arrivi l’ora di un appuntamento per cui sono troppo in anticipo – la visita di rinnovo della patente, ironia della sorte – dopo aver percorso in macchina da sola per la prima volta, col buio, una delle strade che tra non molto forse diventerà troppo famigliare per farvi attenzione. Nonostante abbia sempre amato farlo, a Milano guidavo di rado, e da quando sono rimasta incinta, poi, avevo smesso del tutto (ho scoperto sia molto comune, chissà perché); eppure sentire il bitume e il cemento aggrappati sotto le ruote continua a essere una delle mie felicità.
Uno dei miei più grandi progetti irrealizzati – di quelli di cui mi fermo a chiedere a chi mai possano interessare oltre a me – parla di strade americane, di come la loro infrastruttura abbia cambiato la faccia e le persone di una macronazione come gli Stati Uniti, di tutti i mondi fatti di bizzarrie e curiosities che si affacciano sulle miglia e miglia di highways consumate da miliardi di pneumatici.
In quella fatidica estate, prima di arrivare a Eau Claire, avevo percorso gran parte della Route 66 con un compagno di viaggio interessato, contrariamente a me, a giungere alla destinazione, qualunque essa fosse, nel minor tempo possibile. Se quella cosa, da una parte, mi ha sempre fatto pensare di aver “sprecato” quell’itinerario – nessuna stazione di servizio abbandonata per noi, nessuna insegna al neon, nessuna camera di motel troppo cara e troppo sporca ma con una storia quasi centenaria (come la sua moquette) – ora capisco che, in un certo senso, mettere da parte l’esperienza turistica per usare la strada per lo scopo per cui era stata creata è stata una cosa ancora più unica.
Ma da quel momento, ho capito che volevo scoprire ogni segreto delle strade che mi sarei trovata davanti, la loro storia, le stranezze e le peculiarità.
Ce li ho lì, divisi stato per stato, ricostruiti in itinerari, perché si può fare letteratura con le roadside attractions, le architetture dei motel, i cartelli e le luci così come con i libri.
Sono lì, in attesa che qualcuno si decida a portarli in viaggio su una pagina – perché, come diceva qualcuno, “la strada è vita”.
Questa è
3G - Una vita lenta e obsoleta
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