Questo Almanac arriva di giovedì, ed è pieno di cose che probabilmente riprenderò in modo più approfondito da qualche parte in qualche altro momento. Per ora, però, ecco un breve compendio degli ultimi giorni.
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Nei giorni passati in quarantena con g. è stato impossibile riuscire a guardare o leggere qualsiasi cosa. Da una parte, ho scoperto che il brain fog da COVID è una cosa reale e devastante, peggio persino del pregnancy brain che mi aveva resa inabile alla vita per quasi nove mesi – o forse, il mio cervello cerca solo una scusa per spegnersi e rifiutarsi di collaborare una volta ogni tanto –; dall’altra, passare 24 ore su 24 con un quasi duenne non lascia molto spazio al consumo culturale.
Fatto sta che, finita la semana santa sanremese, ho preso in mano una quantità di materiale del tutto abnorme per il breve tempo trascorso e mi ci sono fiondata a capofitto. Questo è ciò che mi ha accompagnato in questo binge consuming.
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Molte cose da leggere
Mai come in questi giorni ho letto così tanto e libri così eterogenei.
Gaia Manzini, Nessuna parola dice di noi, Bompiani, 2021.
Nel 2021 ho voluto dedicarmi a libri scritti da donne italiane con protagoniste femminili, e questo di Gaia Manzini era nella lista da tempo, anche e soprattutto per l’ambientazione tra Milano e il Lago Maggiore. Ho aspettato molte pagine sperando di vederlo decollare, ma purtroppo non è stato così. L’ho finito per ostinazione, come quel famoso kebab in stazione centrale che continuavo a mordere aspettando di trovare la salsina che in realtà non c’era.[Bonus: credo che il miglior romanzo scritto da una donna italiana con protagoniste femminili uscito nel 2021 sia senza dubbio L’acqua del lago non è mai dolce di Giulia Caminito, sempre Bompiani.]
Jakob Guanzon, Abundance, Graywolf, 2021.
Sono incappata in modo del tutto casuale in questo romanzo incredibile, perché l’incipit era la prova di traduzione per ottenere una borsa di studio per un laboratorio in una scuola di scrittura molto cool. È stato amore a prima vista. È la storia di un rapporto padre-figlio in una situazione di povertà nella provincia americana, ed erano anni che non incontravo una scrittura così dura, ostica e totalizzante.
Orso Tosco, London Voodoo, minimum fax, 2022.
Ho conosciuto Orso Tosco nel 2018, quando è venuto in radio a presentare il suo ottimo romanzo d’esordio Aspettando i naufraghi, e sono rimasta ammaliata dalla sua scrittura. London Voodoo è figlio dei suoi anni a Londra, di Black Mirror, di I figli degli uomini, e della Brexit, e ti fa sentire tutto quel sudiciume maleodorante sulla pelle. Per ogni frase, nella testa esplode una colonna sonora diversa, ed è impossibile smettere. Sono molto felice che un autore italiano sia riuscito a scrivere un romanzo così strutturato e credibile in un’ambientazione anglosassone.
[Bonus: l’unica altra volta che sono riuscita a farmi inghiottire nel buio di una storia così dark è stato con Dalle rovine di Luciano Funetta (Tunué, 2015), che ho letto ormai sette anni fa e sento ancora addosso.]
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Qualcosa da vedere
Vedendo il consenso unanime che raccoglie anche da parte di persone che stimo molto, ho iniziato a guardare Euphoria (HBO, in Italia su Now TV o Sky Atlantic). Il modo in cui la serie coinvolge lo spettatore riproduce molto bene il modo in cui gli stupefacenti prendono il sopravvento sull’essere umano: l’inizio è lento, non capisci se quello che stai consumando ti sta facendo effetto, se ti piace, se lo senti. Poi, a un certo punto, arriva la botta di adrenalina e ne vuoi sempre di più. Ma le puntate escono di settimana in settimana, e devi aspettare per quella successiva, e nel frattempo cerchi il modo di togliere dalla testa il pensiero ossessivo di cosa staranno facendo i personaggi mentre tu non puoi essere con loro e la cosa ti distrugge.
Se rinasco, voglio essere Jules.Per farmi del male, invece, in una giornata particolarmente lenta ho quasi finito Fedeltà, dal romanzo di Marco Missiroli, su Netflix. Che. Pena.
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Qualcosa da andare a vedere
Sono finalmente riuscita a visitare la mostra di Domenico Gnoli alla Fondazione Prada. L’ho fatto con riluttanza, demotivata dal bombardamento su Instagram che ne è stato fatto e che sta diventando una piaga del mondo dell’arte contemporanea. Ne sono uscita con gli occhi e la testa pieni di meraviglia. I dipinti di Gnoli non sono solo il tripudio dell’estetica da social ante-litteram, ma sono i racconti di una vita. Sono quello “show, don’t tell” con cui ti lavano il cervello negli MFA americani. Mio nonno aveva appeso nell’ingresso di casa un disegno fatto da un amico pittore che una sera era andato a sentirlo suonare e aveva tirato fuori fogli e pastelli nel locale. Rappresentava una sedia con una giacca appesa allo schienale. Me lo faceva guardare e mi diceva: “mi fa impazzire, riesco a sentire la stanchezza”. Non era un disegno di Gnoli (purtroppo, non so proprio chi fosse l’autore) ma sono uscita dal Podium della Fondazione con le stesse parole in mente: “mi fa impazzire, riesco a sentire il peso di quelle vite”.
La mostra chiude il 27 febbraio, quindi affrettatevi.
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Dai, che la primavera sta arrivando.
Alla prossima!