Come quella di quasi tutti i miei colleghi più o meno coetanei, la mia vita si divide tra un money job e un actual job – il secondo è quello che nomini quando ti viene chiesto che lavoro fai, il primo quello con cui paghi le bollette. Può succedere che, in certi momenti, la propria vita sembri diretta da Guillermo del Toro, ma non quello di The Shape of Water, quello di Pacific Rim, in cui però non si capisce bene quale lavoro sia un kaijū e quale uno Jaeger, e tu dove sei e cosa fai – che tanto, poi, nessun robottone e nessun megamostro niente può contro i terrible twos del piccolo g.
Questo per dire che avevo annunciato che Almanac sarebbe arrivato di mercoledì e oggi è venerdì: lo so, ma tanto nessuno ci aveva mai veramente creduto – e infatti…
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Qualcosa da leggere
I miei actual jobs ruotano ciclicamente intorno alla musica, ai libri e all’arte contemporanea. In questo priodo, il pendolo sta oscillando fortissimo sull’editoria. Accumulo titoli annotati ovunque, perché nonostante abbia mille quaderni, blocchi, e taccuni – o, forse, proprio perché ho mille quaderni, blocchi, e taccuini – spargo note e appunti da ogni parte; accumulo libri di carta, in pile disordinate sulla scrivania e sul comodino; accumulo ebook, pdf, ed edizioni digitali, aperte in punti differenti su device che non si sincronizzano tra loro, facendomi costantemente perdere il segno. Sembro un mostro di disordine e disorganizzazione, in realtà in questo casino mi muovo con la precisione di un serial killer. Anyway, here we go:
Nico Walker, Cherry, Knopf, 2018.
Se si cerca sui principali store online questo romanzo di Nico Walker, ciò che esce è “Cherry: Now a Major Film Starring Tom Holland” e un bel bollone nero di Apple+ sulla splendida bicromia di copertina. Ma prima che diventasse un filmone con Tom Holland (mi sento male solo a scriverlo), Cherry è stato il capolavoro di autofiction di un autore dalla capacità e dalla storia senza pari, e, citando Christian Lorentzen su Vulture, “the First Great Novel of the opioid epidemic” – nonché, il racconto di uno degli aspetti degli Stati Uniti che qui in Italia facciamo più fatica a comprendere: il problema della salute mentale e del reintegro in società dei veterani di guerra.Chelsea Hodson, Stanotte sono un’altra, trad. Sara Verdecchia, Pidgin, 2022.
Pidgin è una casa editrice napoletana indipendente che sta portando in Italia una serie di autori americani che altrimenti non sarebbero mai stati tradotti. La loro ultima pubblicazione è la traduzione di Tonight I’m Someone Else, una delle mie raccolte di saggi preferite, scritte da una delle persone migliori che abbia mai conosciuto. La domanda da cui Hodson parte nei sedici testi che compongono il libro è “Fin dove può sopportare il nostro corpo?” Quali i sono i limiti della nostra esistenza fisica?AAVV, Non si può più dire niente?, UTET, 2022.
Ammetto: ho un bias, perché con uno degli autori passo in media circa 20 ore al giorno da quasi quattro anni – ma, prima di poter leggere i quattordici contributi che compogono il volume, la premessa di fondo di questo libro mi faceva storcere molto il naso. Invece, mi sono dovuta ricredere, perché quello che temevo fosse una versione estesa dello sproloquio da social network è invece una raccolta di punti di vista intelligenti e circostanziati anche quando non totalmente condivisibili. La dimostrazione che, con raziocinio e capacità di comprensione del mondo, si può dire ancora proprio tutto.
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Qualcosa da ascoltare
I cuoroni geniali di Radio Raheem hanno appena prodotto un podcast da brivido: dall’archivio personale di Giorgio Valletta, praticamente la storia della musica contemporanea fatta uomo, sono spuntate cinque vecchie interviste registrate su cassette che risalgono alla fine degli anni ’80 e all’inizio dei ’90 di artisti allora emergenti e ora epocali. Si chiama Forgotten Tapes e il consiglio è quello di ascoltarlo con un pacchetto di fazzoletti a portata di mano, perché l’emozione è troppa.
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Qualcosa da guardare
Quando ho nostalgia della provincia americana mi metto a guardare qualsiasi true crime – non c’è film che possa rendere la realtà dei centri non metropolitani come il racconto reale delle storie di criminalità. Andando alla ricerca di nuovi titoli, però, mi sono imbattuta in un documentario incredibile, che racconta una storia di disagio e abbandono famigliare in un ambiente del tutto esterno a quello del crimine: si intitola Grey Gardens, è del 1975, e racconta la storia di una madre e una figlia dallo stesso nome, Edith Bouvier Beale, rispettivamente zia e cugina di Jacqueline Bouvier Kennedy Onassis (sì, lei, Jackie), socialite dell’alta borghesia decadute e finite a vivere in un’enorme mansion ormai fatiscente negli Hamptons, quasi incapaci di badare a sé stesse. Albert e David Maysles hanno portato le proprie telecamere tra le mura marce di una casa infestata dai procioni e dai rifiuti a registrare la quotidianità estrema di un rapporto di co-dipendenza, portando alla luce una situazione di grande fragilità che era già stata documentata in un notevole profilo sul New York Magazine qualche anno prima, scatenando forti polemiche.
Grey Gardens è disponibile su Youtube.
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Anche per questa volta è tutto.
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À bientôt!