Una delle mie parole inglesi preferite è rejoice. La amo per un malapropismo che mi porta a credere che il suo significato sia “riappacificarsi, guarire, rinascere”, mentre l’accezione giusta è semplicemente “gioire, essere lieti, rallegrarsi”. Ogni volta che provo a usarla, mi ritrovo a controllare il suo significato, per poi accorgermi che non è quello che avevo in mente. Ma per questa volta, invece, rejoice vorrà dire proprio quello che intendo io.
Mi sono resa conto da poco di quanto mi stia riappacificando: con me stessa, con quello che faccio, con le mie scelte. Mi sto riappropriando di tutto ciò che era stato spazzato via dal furore degli anni passati – la mia vita un’Euridice in balia di un Orfeo che si ostinava a guardare indietro.
Di quel momento buio e difficile, ora, riesco a ricordare solo le immense e innumerevoli porte che mi si stavano spalancando davanti, mentre sentivo gli inferi trascinarmi sempre più giù. Percepisco la forza che allora non capivo di avere, mi manca l’infinita libertà che mi lasciava impietrita in balia dell’horror vacui. Una delle cose che preferisco dell’esistenza umana è percepire il cambiamento. Succede sempre a posteriori, ma prenderne coscienza è una delle soddisfazioni più grandi.
In quel momento buio e difficile ho iniziato il percorso della terapia. Mentre rimettevo pian piano a posto tutti i pezzi, ho cominciato a tirarmi fuori: l’horror vacui mi costringeva a stare fuori casa, e per stare fuori casa dovevo crearmi delle occasioni per uscire. Chiamavo, invitavo, organizzavo, programmavo, andavo – anche da sola. Non ho mai fatto così tanti chilometri in bicicletta. Non ho mai visto così tante persone, mostre, concerti, presentazioni. Non ho mai spinto i miei limiti così tanto più in là. Non mi sono mai sentita così disperata e senza speranza.
In quel periodo, eppure, le cose hanno cominciato ad accadere, da sole, senza doverle forzare o estorcere. Per anni, avevo tried too hard, senza arrivare da nessuna parte, e ora che mi trovavo sul fondo di un baratro sempre più buio, tutto aveva iniziato a girare per il verso giusto. Anzi, a girare addirittura meglio di quanto avessi desiderato da sempre. Io ne parlavo con il mio psicologo come di una specie di fenomeno inspiegabile, lui cercava di spiegarmi che dipendeva tutto dal mio cambio di attitudine, io continuavo a non credergli e a stupirmi.
In quel tempo pesante e complicato ho scritto tanto, e per la prima (e unica, ad ora) volta, anche solo per il gusto di farlo, senza uno scopo in mente.
*
In questi momenti di personale rejoice, ciò di cui mi riapproprio è proprio la scrittura.
Anche se il buio di quegli anni è ormai molto lontano, questi ultimi mesi sono stati affannosi e impegnativi. E in questi mesi ho ricominciato a scrivere. Un’altra cosa che funziona alla perfezione, con me è il desiderio: meno ho il tempo e le energie per fare una cosa, più quella cosa prende corpo nella mia mente e spinge per riconquistare tutto il terreno perso contro le questioni di tutti i giorni. E la scrittura è tenace e ha braccia forti per spostare anche i macigni dell’esistenza.
Mi sto accorgendo di avere una voglia nuova di raccontare – che sia il soggetto di una fotografia, una mostra che visito, un libro che leggo.
Sto capendo che la scrittura non è il massacrante esercizio muscolare a cui mi sono costretta così a lungo, né l’infinita maratona che ho iniziato a correre quando avevo la metà degli anni che ho ora.
So che ora posso fermarmi a respirare – almeno fino al prossimo precipizio.
Questa è
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